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Tiffany rivela l’origine dei suoi diamanti. Aspettando le Blockchain la geografia nel frattempo può fare da filtro etico

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Un numero seriale inscritto con laser consentirà di tracciare l’origine geografica dei diamanti messi in vendita da Tiffany superiori a 0,18 centesimi di carato. Il comunicato stampa del 9 gennaio 2019 ha sorpreso solo in parte gli operatori. Ormai la corsa a documentare l’eticità è iniziata.

The Diamond Source Initiative fa parte del complessivo rinnovamento di Tiffany

“I consumatori vogliono conoscere le origini delle cose che comprano, come il nome della fattoria che ha fornito loro il latte o la fonte delle piume del giaccone”, questo il commento del New York Times che riferisce tempestivamente la decisione della maison inserendola in un più vasto contesto di cambiamenti voluti dalla dirigenza. È il momento di “ripensare il brand dell’azienda” – aveva spiegato il nuovo CEO, l’italiano Bugliolo – “secondo la sua ispirazione originale…”.

Fig. 1 – La homepage del sito di Tiffany mette in risalto la campagna di rinnovamento del 2018 con il video del remix di “Moon River”.

Già nel 2017 i cambiamenti si erano fatti visibili, parole d’ordine: innovazione innestata sulla tradizione. Il Blue Box Café sulla Fifth Avenue, per esempio, dove si può fare colazione da Tiffany a partire da 29 US$. Oppure l’ingaggio di Lady Gaga come “ambasciatrice” del brand. Ma è il
nuovo remix di “Moon River”
, la leggendaria canzone del 1961 del film “Colazione da Tiffany” che ci spiega molto della strategia per il futuro (Figura 1). Sfuma la vecchia melodia ed il rapper A$AP Ferg assieme all’attrice Elle Fanning si sovrappone ritmicamente alle immagini in bianco e nero per portarci nel futuro del brand. Le note e le immagini sembrano voler di ammaliare quelli che la casa newyorchese individua come il pubblico del futuro, i giovani consumatori che non condividono con i genitori ed i nonni i valori dei vecchi cari anelli da fidanzamento. Insomma i dati mostrano che questi Millennial saranno pure meno interessati alle ricorrenze familiari ma sono invece sensibili all’integrità ed alla trasparenza della catena dei fornitori dei diamanti. La strategia di una grande impresa del lusso non può rimandare il compito di rassicurare i clienti sull’eticità della filiera di fornitura.

Fig. 2 – Un video esplicativo su Tracr.com illustra come funziona la piattaforma di tracciabilità dei diamanti basata sulla blockchain.

Tra il vecchio protocollo e le nuove Blockchain

Ma non si tratta di un lavoro semplice. Con la nuova corsa verso le blockchain, l’asticella s’è alzata. Ed a lavorare alla messa a punto di registri crittografati di tracciatura in generale, e dei diamanti in particolare, sono già in tanti, a cominciare dalle startup Everledger e Arianee ma anche dal progetto Tracr di De Beers (Figura 2). In Cina Chow Tai Fook sta collaborando con il GIA per permettere di verificare il percorso dei propri diamanti. In uno scenario così affollato e complicato da dove partire? Tiffany ha analizzato le armi che aveva già in casa. Dal 1999 usa un proprio Diamond Source Warranty Protocol nel quale però non è indicata l’origine geografica dei diamanti. Vi si danno solo rassicurazioni che questi non sono pervenuti da paesi con violazioni dei diritti umani. “Esiste un database proprietario e sicuro che collega i numeri seriali dei diamanti alle loro provenienze al viaggio della manifattura”, ha dichiarato un portavoce (Figura 3).

Fig. 3 – L’articolo pubblicato su SupplychainDive nel Gennaio 2019.

Ma oggi è assai discutibile l’efficacia di un codice troppo generico, vecchio ormai vent’anni. Stessa età dello Schema di Kimberley, uno strumento di convalida della responsabilità e diligenza delle procedure di acquisizione dei diamanti grezzi che non può più essere usato come un plus di merito che aiuti a primeggiare eticamente quei brand che vogliono essere all’avanguardia della tracciabilità. Si tratta infatti di un accordo transnazionale che sulla carta garantisce l’intera filiera della manifattura. Inoltre recentemente alcune ONG hanno delegittimato questo protocollo poiché si limita a contrastare l’uso dei diamanti come forma di finanziamento di guerre civili e non è idoneo a combattere anche altri tipi di abusi, quelli contro i diritti umani. In estrema sintesi, la certificazione di Kimberley, da sola, è un’arma spuntata e polverosa.

In che modo allora Tiffany ha individuato la maniera per rivelare il percorso dei propri diamanti? Analizzando la propria filiera e ricorrendo all’origine geografica dei grezzi. I passaggi più prossimi al consumo, quelli del taglio delle gemme, sono i più semplici da ricostruire. Tiffany infatti dichiara di ricevere tra l’80% ed il 90% della quantità delle proprie forniture superiori a 0,18 punti da una sua controllata, la Laurelton Diamonds, che taglia diamanti in Belgio, Botswana, Mauritius, Vietnam e Cambogia, utilizzando grezzo proveniente da Botswana, Canada, Namibia, Russia e dalla Repubblica Sudafricana. Controllare l’impresa tagliatrice dalla quale proviene la quasi totalità dei diamanti che impreziosiranno le collezioni è un bel vantaggio. Le criticità aumentano invece quando il percorso della tracciatura deve risalire all’indietro.

Chi ha le credenziali etiche non le regala

Alla base del percorso delle gemme i giganti estrattivi che alimentano la frazione che Tiffany “autoproduce” e cioè Alrosa, Dominion Diamond Mines, Rio Tinto e De Beers, sono in grado di garantire e dimostrare gli adempimenti di sostenibilità ambientale e di rispetto delle parti interessate dai loro processi minerari. Ma ad un grande player come Tiffany interessa principalmente indicare il paese nel quale i diamanti grezzi vengono reperiti, piuttosto che semplicemente assegnare ai propri fornitori il merito di far la parte dei garanti. Ed a questo punto si presenta un imprevisto. Proprio De Beers ha annunciato, non senza suscitare reazioni controverse, di proibire ai suoi clienti di divulgare l’origine geografica dei propri diamanti. Il grande gruppo estrattivo infatti, essendo presente e ben conosciuto anche nel retailing vuole tenersi ben strette le credenziali etiche che può documentare nelle attività minerarie di propria competenza. Quindi vende grezzo ai propri clienti tagliatori, garantendo sì l’ottemperanza ai criteri etici di responsabilità, ma in modo geograficamente indifferenziato. Si limita in pratica a garantire che le gemme sono state estratte e trasportate in modalità eticamente diligente, ma ne riferisce l’origine solo al Botswana, il paese nel quale tutto il materiale grezzo confluisce da tutti i siti De Beers nel mondo per essere stoccato e selezionato. Addirittura solo da poco, e dietro insistenze dell’industria, ha concesso ai propri clienti di indicare DTC come produttore, lasciando l’uso esclusivo del marchio De Beers alla propria linea ForeverMark. Questa situazione ha obbligato Tiffany a ricorrere alla definizione “Botswana sort” per quei diamanti ricevuti da De Beers.

La Diamond Source Initiative di Tiffany è senza dubbio una delle prime procedure messe in opera da grandi e prestigiosi brand (Figura 4). Alla prima fase se ne aggiungerà un’altra nel 2020 che porterà all’aggiunta di ulteriori informazioni sulle caratteristiche del taglio e della lucidatura delle gemme mentre, per quelle antecedenti l’introduzione dell’inscrizione laser della nuova iniziativa, vale il Codice del 1999.

Fig. 4 – La Diamond Source Initiative presentata su Tiffany.com individua i paesi “etici”.

Ma anche i produttori di diamanti sintetici vogliono dare un morso al panino etico

Non sono solo giudizi positivi quelli che si sono susseguiti all’annuncio dell’iniziativa. L’avventura è appena cominciata e già le prerogative etiche del nuovo sistema sono messe in discussione. Non da parte di puntigliose ONG, né di avvocati radicali, specialisti nel fare le pulci alle iniziative di trasparenza. Il fatto è che per Tiffany il bilancio di sostenibilità si traccia interamente nei confini dei diamanti naturali. I diamanti sintetici “hanno un uso ed un posto… ma i consumatori del lusso continueranno a desiderare la rarità e la sorprendente storia dei diamanti naturali”. Queste parole, pronunciate dal vice Presidente Senior del Diamond and Jewelry Supply del gruppo hanno ispirato una vivace reazione, rilanciata da Forbes, da parte di Jason Payne, CEO di Ada Diamonds, un produttore di diamanti sintetici. In una lettera aperta rivolta proprio al funzionario di Tiffany, Payne mette in discussione i risultati di sostenibilità delle grandi imprese minerarie che a suo giudizio inquinano i fiumi canadesi con agenti cancerogeni e usano sistemi invasivi e dannosi per gli oceani con le grandi navi specialiste nel recupero di diamanti da depositi alluvionali marini. Insomma, perché non utilizzare i diamanti sintetici se si vuol dare al lusso una vera patente environmental friendly?

Le argomentazioni dei produttori di diamanti sintetici statunitensi da tempo si fondano sulla presunta maggiore sostenibilità ambientale delle loro pietre. La produzione di diamanti sintetici renderebbe inutile l’intero, inquinante comparto dell’estrazione mineraria. Sarà, ma se i grandi brand non useranno diamanti sintetici all’appeal etico non verrà mai associato quello del lusso e dell’esclusività. “Vi invito a riconsiderare la posizione”, argomenta Payne, “poiché la vostra visione contraria a rischiare sui diamanti sintetici invecchierà come la visione di Microsoft del 2007 sull’iPhone”. Scomodare tali illustri e vincenti predecessori non fa pensare che stiamo assistendo ad un combattimento per elaborare un modello etico di consumo che piaccia ai Millennials?

Fig. 5 – Uno screenshot del video dedicato alla Diamond Source Initiative sul canale YouTube di Tiffany che illustra, tramite un’animazione, il percorso di tracciabilità dal diamante montato su un gioiello alla miniera da cui esso viene estratto.

Nomi di paesi, marchi di riconoscibilità. E domani?

Noi non crediamo che una fonte all’interno del nostro network sia migliore di un’altra. Noi crediamo invece che la capacità di Tiffany di render conto della provenienza sia superiore a quella di altri gioiellieri globali del lusso”. In un’intervista a Style il CEO Bugliolo, non facendo mancare un pizzico di soddisfazione, sintetizza così la mossa di rivelare la provenienza ai consumatori. Ed i giudizi degli osservatori, ad esempio Human Rights Watch, sono sicuramente positivi poiché un leader indica la strada e fa tendenza. C’è dunque da giurare che tutti i grandi protagonisti internazionali del gioiello e del lusso seguiranno l’esempio o perfezioneranno i propri dispositivi di garanzia etica.

A ben vedere però la sequenza delle informazioni rilasciate dalla Diamond Source Initiative di Tiffany, comprese ad esempio quelle sul percorso del grezzo e sulle credenziali dei tagliatori, sono, né più né meno, quelle che i nuovi sistemi stanno cercando di garantire con le Blockchain. Evidentemente Tiffany ha stimato eccessivo il tempo necessario a pervenire ad un registro crittografato efficiente e riconosciuto ed ha giocato d’anticipo sfruttando il vantaggio competitivo dell’integrazione verticale costituito dai propri impianti di taglio. In trasparenza comunque si può rilevare che la tracciatura, seppur destinata con ogni probabilità a raggiungere con le nuove tecnologie digitali registrate le singole miniere, al momento si riferisce a quegli insiemi geografici nazionali dove operano i colossi estrattivi. La garanzia etica in pratica risiede nel semplice nome dello stato che concorre con i giganti minerari a documentare in modo esauriente la soddisfazione dei requisiti etici nei riguardi dell’ambiente e delle persone coinvolte dallo sfruttamento. La strada più affidabile è quella di indurre i consumatori ad identificare diamante sicuro con paese sicuro. Nel comunicato ufficiale si legge: “Tiffany & Co. prende un impegno di trasparenza geografica al 100% per ciascun diamante di recente fornitura, singolarmente registrato e non si approvvigionerà di diamanti di provenienza sconosciuta (anche se viene assicurata la condotta responsabile della fornitura) se resi disponibili”. La compliance etica dunque, seppure dimostrata, non è utile se non è convalidata dall’appartenere geograficamente ad un paese “presentabile”. In un certo senso alle operazioni di sorting del grezzo si aggiunge, almeno nella prima fase, la selezione di quelle entità geografiche nazionali, capaci di tradursi in marchi di garanzia di immediata riconoscibilità. Ed è ovvio che il pacifico e ben regolato Botswana avrà un punteggio migliore del turbolento e corrotto Zimbabwe. Di conseguenza per legittimare i diamanti estratti con responsabilità occorre prima legittimare un’intera nazione. Anche le Blockchain però dovranno valutare prima o poi come garantire ancora un posto, ad esempio, ai produttori di diamanti da depositi alluvionali, da altri paesi oltre la Sierra Leone, per i quali i passaggi di certificazione di congruità etica sono assai complessi per le piccole dimensioni delle imprese estrattive.

A cura di Paolo Minieri, pubblicato su IGR – Rivista Italiana di Gemmologia nr. 6, Primavera 2019.

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